Il Paretaio e la Palazzina

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Un luogo, anzi, un microtoponimo ben conosciuto dagli abitanti di Montalbino è il “Paretaio”. Si trova nei pressi della ex-cappella di Santa Maria a Mensoli, sulla sommità di un piccolo poggio. Questo paretaio è ancora ben conservato nella sua forma d’insieme: è un caratteristico boschetto a forma circolare che lo rende ben visibile anche da lontano.

Già in un vecchio post avevo parlato dei pareatai e a cosa servissero. Ripeto brevemente che erano luoghi artefatti costituiti da un boschetto con dei posatoi, una capanna in cui il cacciatore si nascondeva e delle reti tirati su a guisa di pareti (da qui il nome) collegati con delle corde che partivano dalla capanna ove il cacciatore tirandole richiudeva le reti intrappolando gli uccelletti. Questo metodo di caccia veniva denominato, almeno da queste parti, con il termine “uccellare”.

A differenza del paretaio che si trovava nei pressi del podere “Poderaccio”, o come si chiamava una volta il “Palazzaccio”, che ho descritto l’altra volta, in cui è conservato il capanno in muratura del cacciatore e sono scomparse le piante, in questo paretaio presso la cappella di Mensoli invece sono conservate le piante, ma è sparito il capanno del cacciatore che probabilmente non era in muratura ma fabbricato in legno.

Nonostante la prossimità alla cappella il Paretaio non era all’interno del podere di Mensoli, che era il podere di proprietà pro tempore del parroco di San Giusto a Montalbino, ma per pochi metri era nel podere della “Palazzina”, facente quindi parte del popolo di San Lorenzo a Montalbino. Il podere Palazzina prende il nome dalla casa colonica che si trova nei pressi del paretaio, anch’essa su un punto panoramico. Questa casa colonica fu ristrutturata all’inizio del ‘900 e ne uscì così bella che la gente del posto incominciò a chiamarla Palazzina soppiantando il vecchio nome “il Poggio”.

Ebbene, il vecchio podere il Poggio ha la sua storia da raccontare.

In origine questo podere era un tuttuno con quello confinante di Mensoli e con altre particelle di campi coltivati e di boschi. Era quindi inglobato in un ampia proprietà appartenuta alla famiglia fiorentina de’ Rossi di cui ho già parlato in precedenza. Senza ripetermi accenno che con un atto testamentario del 1498 i de’ Rossi cedono queste terre di Montalbino sia alle monache di Santa Felicita di Firenze (i due terzi) sia al capitolo della Pieve di San Pietro in Mercato presso Montespertoli (un terzo). Questi due enti furono in un primo tempo compropietari e solo in un secondo tempo stabilirono di spezzare l’antica proprietà in due, con confini ben precisi. La cappella di Mensoli con le terre circostanti andarono al pievano di San Pietro in Mercato.

podere il Poggio

Questo podere di Mensoli fu poi ulteriormente diviso in due dal pievano per venderne una parte alla famiglia Galli di Firenze. Si tratta della parte sulla sommità del poggio e che in futuro verrà chiamato appunto “Podere il Poggio”. Ma ancora non aveva questo nome. Siamo nella prima decade del ‘600 e questo acquisto che fece la famiglia Galli fu il primo di una lunga serie che verrano effettuati nel territorio montespertolese. I Galli, che da lì a poco acquisteranno il titolo nobiliare di Conte, diventeranno i maggiori proprietario terrieri di Montespertoli ed acquisteranno anche il castello presso il capoluogo, castello che era appartenuto ai Machiavelli e che diventerà quindi il Castello dei Galli, poi diventato per l’accorpamento delle famiglie il Castello dei Galli-Tassi, e infine, dopo la vendita di tutte le proprietà al padre del famoso Barone Sydney Sonnino, verrà conosciuto, come tuttora, con il nome di Castello di Sonnino. E così questa vastissima proprietà, la maggiore del territorio comunale e che quindi ne è stata protagonista nella storia di Montespetoli, non ha avuto origine come si potrebbe pensare dal nucleo centrale costituito dal castello nei pressi del capoluogo, ma ha avuto origine da una zona decentrata, da questo podere nei pressi di Montalbino.

Ma andiamo per ordine. In un decimario che si trova alla pieve di San Pietro in Mercato del 1587, redatto dal pievano Orazio Corsi, quindi antecedente all’acquisto del podere da parte dei Galli, troviamo un elenco di tutti i popoli che compongono il piviere e che quindi gli erano tributari dovendo pagare la “decima”, e per oguno di essi il Corsi fa l’elenco dei poderi di cui i popoli sono costituiti. Ebbene, nel 1587 il podere di Mensoli non appare nell’elenco dei poderi del popolo di San Giusto a Montalbino e nemmeno in quello del popolo di San Lorenzo a Montalbino. Questo probabilmente perchè nel decimario venivano elencati tutti quei poderi soggetti al pagamento della decima alla Chiesa, ma essendo il podere di Mensoli di porprietà diretta della Chiesa l’intero suo ammontare andava al prete e non una decima parte.

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Un altro decimario che si trova nell’archivio della pieve di San Pietro in Mercato, è del 1700 e il pievano che lo redasse fu Francesco Ciferi. A questa data i Galli avevano fatto l’acquisto da circa 90 anni e troviamo infatti nell’elenco dei poderi del popolo di San Lorenzo a Montalbino il “podere luogo detto Mensoli” che sappiamo era la metà dell’originario podere, quello sulla sommità del poggio. L’altra metà, quella intorno alla cappella, nel 1700 era ancora di proprietà della pieve e lo deduciamo dal fatto che ancora non appare nell’elenco dei poderi del popolo di San Giusto. Abbiamo prova certa che questo podere fu ceduto dal pievano al parroco di San Giusto a Montalbino da lì a pochi anni grazie ad uno stralcio di cronacario parrocchiale di Montalbino che ho trovato nell’archivio storico diocesano di Firenze che ho gia menzionato: il curato Giovanni Candido Borghetti parla di una vicenda dovuta a certa legna tagliata. E’ un documento del 1707, quindi in questo anno la porzione del podere di Mensoli era già di poprietà pro tempore del curato di San Giusto a Montalbino. Poi, nel 1770, un altro curato di Montalbino, don Pietro Chiti farà una descrizione accurata di questa proprietà definendola “annesso di Mensoli.”

Quindi si potrebbe dedurre che una volta i preti di San Giusto a Montalbino divennero proprietari della cappella abbiano voluto dare il nome del podere annesso con quello della cappella stessa, Mensoli, e allora il Conte Galli, per evitare un nome doppione mutò quello del suo podere in un semplice “Poggio”, e infatti dallo stato d’anime della parrocchia di San Lorenzo a Montalbino che inizia nel 1766 troviamo che il curato Piermaria Bigazzi chiama questo podere “il Poggio”.

E arriviamo alla parte conclusiva di questa microstoria ritornando al nostro paretaio. Sulla mappa catastale leopoldina del 1821 troviamo il nostro podere con la casa colonica denominata curiosamente “Villa del Poggio”. Avendola chiamata villa farebbe pensare che oltre all’abitazione del contadino mezzadro ci fosse stato all’epoca anche un appartamento ad uso del proprietario e cioè che il Conte Galli ci potesse andare a villeggiare. Che lo usasse come luogo base per le battute di caccia? Può darsi. E curioso inoltre constatare che sulla carta catastale il paretaio nel 1821 ancora non esisteva. Eppure in questa mappa vengono segnalati i paretai e ne appaiono anche diversi nei dintorni di Montalbino. Quindi il nostro paretaio fu realizzato dopo il 1821, e fu fatto presso la “Villa del Poggio” innanzitutto perchè era un luogo favorevole per fare un paretaio che altro non è che un posatoio per uccelli migratori, e poi forse perchè presso la casa colonica c’era già un appartamento padronale ed era quindi logisticamente adatto per il Conte Galli: probabile andasse ad uccellare di prima mattina e quindi egli si recava la sera avanti, pernottava nell’appartmento ed era già pronto e sul posto la mattina seguente.

Come ho già detto altre volte queste ricostruzioni di microstoria sono frutto di deduzioni che si appoggiano su alcuni documenti, però la scoperta di nuovi documenti potrebbero dare nuova luce e magari cambiare qualche carta in tavola. Vedremo in futuro. Intanto godiamoci il paretaio così come appare oggi, un luogo panoramico molto bello dove lo sguardo pare spaziare per mezza Toscana.

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Cronache di guerra 12 [la Liberazione]

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Il fronte è arrivato a Montalbino. La lettura del cronacario di San Giusto a Montalbino di don Livi è di per se esauriente. Poco c’è da aggiungere solo che gli indiani che don Livi descrive sono i soldati facenti parte della 21° Brigata dell’8^ armata dell’esecito britannico; in particolare erano gli uomini del 1° battaglione del 5° reggimento Mahrattas, cioè composta da uomini reclutati in India, nella regione di Maharatta, con capitale Mumbai. A comandarli è il Tenente Colonnello D.W.H. Leeming che è l’ufficiale con cui don Livi parla.

25 luglio 1944

Stamattina è nebbia. Ai tedeschi non piace. Sono in guardia più del solito. Ad un certo momento i primi spari, la mitragliatrice comincia la sua musica. I tedeschi vedendosi il nemico troppo vicino fuggono. Insieme alla mitraglia dai poggi di Trecento vengono anche le cannonate. I tedeschi fanno pochi metri e poi risparano, si fermano al Pinone e sparano, a Mensole e sparano, alla Palazzina e sparano. Gli altri rispondono con sprechi di munizione. Abbiamo la sensazione che qualcosa debba essere rovinato. Intanto si sta in cantina aspettando il momento di uscir fuori. Si sente camminare su in casa, in chiesa. Sono già arrivati gli altri, bisogna uscire. Da uno spiraglio si vede una faccia nera. Si esce. “Ecco i marrocchini …” Macchè, ci dicono che sono indiani. Credevamo e anche i tedeschi dicevano di avere di fronte i marocchini e invece sono indiani dell’8^ armata.

Andiamo a vedere in casa. Gesù mio misericordia! Non per le bombe cadute che, grazie a Dio, la chiesa è ritta, la casa è ritta, ma per la confusione che fanno questi indiani per casa. La roba è tutta per terra: le cassette degli armadi, dei cassettoni sono rovesciati per terra. Si fruga, si prende, si trincia. Prendono medaglie e se le mettono in petto, tagliuzzano la stoffa, specialmente in colori e ne prendono un trinciolo per uno. Roba dell’altro mondo. Rompono bicchieri, piatti, tegami. La casa è ridotta ad un bazar. E tutto questo fanno alla tua presenza, col sorriso più bello, senza sapere il male che fanno. Come i ragazzi. Intanto si riapre il fuoco. Un ufficiale inglese saluta il priore e domanda se vi sono feriti tra la popolazione. E’ contento che non vi sia nessun ferito. Dice di essere spiaciente nel vedere alcune case colpite. “La guerra è la guerra.” Intanto si spara su Mensole a più non posso. Il priore fa presente che lì non ci sono più tedeschi. L’ufficiale, avutane l’assicurazione, fa telefonare di cessare il fuoco. Dopo alcuni minuti cessa. La casa del contadino però è colpita almeno in cinque posti e il campanilino non c’è più e, quel che è peggio, è andata in frantumi la campanina quattrocentesca. Vi era la data, 1444. E’ vissuta cinquecento anni precisi. Anche altre case sono colpite. Quella dei Frosali, quella di Sonnino e del Lilli. Quattro famiglie sono senza tetto.

Gli indiani non proseguono l’avanzata, ma si fermano a Montalbino. Fanno il bagno in mutande. Che Africa! E poi mangiano il loro riso. Si capisce, colle mani. Saranno un 500 in Montalbino e sono la disperazione della gente. Buttano all’aria tutte le case. Si fa buio e tutti senza smuoversi perchè c’è la ronda. Ci si butta sul materasso un po’ più sollevati. Un incubo è passato. Anche le pulci danno meno fastidio. Un caporalino dorme davanti alla porta della cantina per proteggerci.

Verso il restauro della chiesa

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Sul cronacario della parrocchia di San Giusto a Montalbino troviamo in data 14 dicembre 1940 l’inaugurazione dei restauri della chiesa. Con orgoglio il vicario don Livi ci fa un resoconto di come si sono svolti i restuari incominciando con gli antefatti che adesso scopriamo in questo post.

Venendo in S.Visita Pastorale, l’Arcivescovo, nei decreti della medesima, ingiunse al Vicario di fare un progetto e una perizia pei restauri a questa chiesa parrocchiale perchè era proprio bisognevole come de visu aveva constatato il Cardinale.

Al riguardo invitiamo a rileggervi il post della visita pastorale del Cardinale Elia della Costa che c’era stato giusto un anno prima, il 17 dicembre 1939.

Il Vicario si rivolse al maestro muratore Fabio Mannucci del Fiano al quale già era stato promesso questo lavoro quando nel 1937 sembrava di fare insieme alla canonica.

Vi ricordo anche questo post dove si parla dell’arrivo di don Livi a Montalbino nel 1937 e dei lavori di restauro che ebbe in quel periodo la canonica e che era rimasto in sospeso la volontà anche di rifare la chiesa.

Questi chiamò a fare il progetto come perito in materia il Sig. Dino Chini di Borgo San Lorenzo che altre chiese aveva restaurato nei dintorni. Il Sig. Chini venne il 17 gennaio a Montalbino. Come può constatarsi dalle carte che si conservano in archivio furono fatti due progetti: uno minore che riguardava le cose strette necessarie, un altro maggiore che comprendeva il rialzamento e molte altre cose.

In archivio non abbiamo trovato i due progetti, ma una lettera riepilogativa del Chini in cui descrive le “altre cose”: ripavimentazione, rialzamento, scalino e rialzamento del presbiterio, facciata con nuova finestra.

Il progetto fu presentato a S.E. Il Cardinale. L’Arcivescovo fece notare che la somma era considerevole, ma al tempo stesso il Vicario faceva osservare che abbattendo le piante di alto fusto del Beneficio la somma poteva essere ricoperta con il ricavato delle medesime. Il progetto piacque a S.E. che dette oridini in tal proposito al suo amministratore, e il Vicario disse di fare come un’asta privata e dare le piante al maggior offerente. La Milizia Nazionale Forestale dette il permesso per l’abbattimento dopo varie raccomandazioni del Vicario presso suoi conoscenti impiegati al comando regionale, e i militi di San Casciano fecero la loro perizia.

I conoscenti in realtà erano parenti: don Angiolo Livi aveva suo zio che era ufficiale nell’arma della forestale.

Vinsero l’asta Salvino Signorini e compagni, di Certaldo. Furono offerte £ 10.500. La perizia dei Militi Forestali era di 5 mila lire di meno. Roba da chiodi! Le piante furono abbattute, tirate su dalle buche col trattore a cingoli e portate lungo la strada del camposanto.

Il “Beneficio” che il Vicario rammenta altro non sarebbe che le terre della chiesa ad uso del parroco pro tempore. Al podere di Mensoli, oltre che la parte coltivata c’e anche una parte boschiva. La frase che le piante abbattute furono “tirate su dalle buche” con l’ausilio del trattore a cingoli si riferisce ad un microtoponimo molto usato per vari luoghi infondo a strette valli. Queste “Buche” erano dietro al cimitero, quindi nel punto dove inizia il borro del Chiocciolino. Gli alberi ad alto fusto si trovavano sul declino della collina che era abbastanza ripida: in effetti i boschi erano sempre in luoghi ripidi visto che i luoghi più praticabili erano da secoli stati disboscati per ricavarvi i terreni da coltivare. Una cosa che non è stata menzionata nel cronacario, e don Livi forse se ne guardò bene, fu che dopo poco nella zona che c’era stato il disboscamento il terreno franò al seguito di alcune piogge, proprio a causa degli alberi che vennero a mancare e che avevano sempre fatto da collante. Oggi è facile individuare la zona in cui furono prelevate le piante per finanziare i restauri della chiesa perchè ci sono dei vistosi calanchi che tagliano la collina dove sopra c’è la casa della Palazzina e lì vicino anche la casa e la ex-cappella di Mensoli.

Scoppia la guerra. Tutto era rincarato e la voglia di restaurare la chiesa si dilegua specialmente dalla testa di Mons. Benvenuti che mai ne aveva avuta voglia.

Mons. Benvenuti è il delgato arcivescovile per i Beni Ecclesiastici, già menzionato nel cronacario nel link di cui sopra e che ci appare come l’acerrimo avversario che non ha intenzione di spendere soldi per la chiesa di Montalbino.

Siamo l’ultimo di luglio. Il Vicario è a Firenze in udienza da S.E. il Cardinale. Fa osservare che il popolo mormora perchè le piante sono state vendute, i soldi sono stati presi e la chiesa non si restaura. L’Arcivescovo va a riprendere la perizia dimenticata sotto altre carte e decide di attuare il progetto che comporta la minore spesa. Prima di iniziare i lavori però il progetto deve essere approvato dalla Commissione d’Arte Sacra. Il Vicario torna a casa contento. La commissione dorme. Il suo presidente si trova in ferie. Finalmente viene mandato il Can. Prof. Ernesto Bianchi il 19 settembre che sul posto si rende conto del progetto e poi riferisce alla Commissione. La Commissione, ascoltato il Prof. Bianchi, approva il primo progetto, ma fa notare che desidererebbe la facciata come nel secondo, perchè quella presente che rimarrebbe tale e quale attuando solamente il primo, non è la facciata di una chiesa … ci vuole il binocolo per accorgersi che siamo davanti a una casa del Signore.

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La Biscondola

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Uscendo dalle case di Montalbino, in direzione di Mensoli, c’è una curva che la gente del posto chiama “la curva della Biscondola”. Ma non solo la curva, anche la porzione di campo che si trova sottostante viene chiamato Biscondola. Si tratta questo di un microtoponimo molto caratteristico. Infatti biscondola è una parola del gergo valdelsano ed è probabile che a Firenze non lo abbiano mai sentita rammentare. Un luogo chiamato biscondola vuol dire che è un posto baciato dal sole dalla mattina alla sera, quindi un luogo, come quello a Montalbino, fatto a nicchia. Anche se va detto che la mattina presto la Biscondola di Montalbino è ancora in ombra, effettivamente da metà mattinata fino al tramonto c’è sempre sole. Oggi l’innalzamento di alcuni alberi hanno reso ombrosa una porzione di questo luogo.

E’ una parola questa che è andata in disuso e sopravvive solo sulle bocche dei nativi che conoscono ancora questi microtoponimi. E’ purtroppo una parola destinata a scomparire dal nostro vocabolario, come del resto è già da tempo sparito completamente il verbo che ne derivava: biscondolare. Infatti tra i contadini si poteva sentire delle frasi tipo questa: “Allora? Si è impegnato oggi Bebbe?” “Macché, è stato tutto il tempo a biscondolare!” Che vuol dire che invece di essere stato a lavorare nel campo insieme agli altri, Beppe era stato senza far niente seduto a scaldarsi al sole; magari ci riferiamo ad un periodo di stagione fresca, ovviamente d’estate uno se ne stava in un posto in ombra.

Biscondolare voleva dire oziare con una valenza diversa da bighellonare: il bighellone è uno che se ne sta con le mani in tasca magari andandosene a zonzo senza fare niente di importante, mentre colui che biscondolava voleva dire che se ne stava fermo, seduto o sdraiato, in un posto.

Alla Biscondola di Montalbino, proprio nel luogo dove c’è la strada con la curva, un tempo c’era il ritrovo delle donne. Infatti sopra il ciglione della curva c’è il Poggio, un campo che ultimamente, fino a poco tempo fa, è stato un vigneto, ma all’epoca in cui non era arrivato ancora l’acquedotto era in gran parte coltivato a cereali, e in un punto lì vicino c’erano delle pozze d’acqua circondati da canneti. In queste pozze del Poggio le donne di Montalbino andavano a lavare i panni che poi tendevano sugli arbusti della Biscondola. Aspettando che i panni si asciugassero le donne se ne stavano al solicino della Biscondola, sedute lungo il ciglio a fare i cappelli di paglia e a rassettare qualche indumento che via via si asciugava. Era quindi un gran ciarlare di comari a cui si aggiungeva lo strepitio dei bambini che giocavano correndo lungo la strada e nel campo sottostante. Nelle stagioni fresche era un luogo in cui ci si stava bene, era, di fatto, il salotto delle donne di Montalbino.

Il Vicario don Veneziani

1907 Stato anime

Don Luigi Veneziani fu parroco di Montalbino per 13 anni, dal 1905 al 1918, col titolo di Vicario Economo. Era originario di Castelfiorentino ed aveva solo 23 anni quando arrivò a Montalbino: aveva quindi cantato messa da poco. In precedenza era morto il Priore don Francesco Bianucci nel 1900. La sede di Montalbino era già stata assegnata a Don Torello Bonacchi che ne prese possesso nel novembre del 1902, ma a dicembre 1904 dovette già andarsene. Dicevano i vecchi che la causa della rimozione del Bonacchi fu l’invidia degli altri preti delle parrocchie confinanti perchè il vulcanico don Torello aveva organizzato nuove messe e con la sua eloquenza aveva riempito la chiesa, ma aveva svuotato le chiese degli altri. Urgeva adesso un nuovo prete, dal carattere mansueto e schivo, e che soprattutto non pestasse i piedi dei colleghi vicini. Era l’identikit di Don Veneziani. Era infatti un prete giovane, novellino e di poche parole. Con lui non c’era il rischio che ‘rubasse’ i fedeli alle parrocchie vicine, anzi, rischiava di svuotare la sua chiesa: infatti curiosamente non spiegava quasi mai il Vangelo.

Appare quindi un carattere all’opposto del suo predecessore, se don Bonacchi dovette avere un carattere ruspante e deciso, don Veneziani appare delicato e sensibile. Lo si vede anche nell’osservare i suoi scritti nell’Archivio parrocchiale: aveva la passione per il bello stile calligrafico e i nomi dei suoi parrocchiani contadini sono scritti sugli Stati d’Anime con eleganti svolazzi degni dei diplomi regi. Non fu comunque un prete frivolo chiuso nel suo mondo, ebbe invece un ruolo attivo per tutelare i suoi parrocchiani nel periodo della Grande Guerra. Ecco cosa scrive di lui don Angiolo Livi:

Col novembre del 1905 viene da Castelfiorentino il Sac. Luigi Veneziani che ci starà fino al 3 maggio 1918 giorno della sua morte. Subito nel maggio del 1906 ci fu la Visita Pastorale dell’Arcivescovo Mons. Mistrangelo. La Visita Pastorale precedente era stata fatta il 17 IX 1882 da S.E. Mons. Eugenio Cecconi come riscontrasi nel libro dei Matrimoni.

Il giorno 15 maggio 1906 l’Arcivescovo Mistrangelo venne a S.Giusto a Montalbino e forse ci rimase anche il giorno dopo perchè nel libro dei Matrimoni ci vediamo la firma del convisitatore Can. Sac. Rofi accompagnata dalla data 16 maggio 1906. Si conserva nell’Archivio parrocchiale una copia del decreto emanato in occasione della S.Visita. Anche allora la chiesa di S.Giusto doveva essere in condizioni povere come oggi giorno. Si parla di restauri al soffitto della sagrestia, alla trave centrale della chiesa, ai candelieri, alle panche, alle predelle degli altari, ecc… Fu notata la scarsità degli arredi sacri e la quasi totale indecenza di quelli esistenti. Anche allora mancava il piviale nero. L’Arcivescovo elenca varie cose da restaurarsi o da togliersi. Riguardo al cimitero raccomanda che vi sia il posto per i non battezzati e che sia posta nel mezzo la croce. Da anche alcuni ordini riguardo all’Oratorio della B.Vergine allora uffiziato.

Dopo questo decreto il Vicario Veneziani lascia scritte alcune considerazioni. Crede opportuno che la parrocchia sia trasportata a Mensole e, con la vendita del trittico che è dietro l’altare alle R.R. Gallerie, coprire tutte le spese.

Altre cose importanti non risultano avvenute nei 13 anni di ministero pastorale del Sac.Veneziani. Fu abile, in tempo di guerra, a far piovere esoneri sui suoi parrocchiani. Quasi sempre chiuso in casa andava molto raramente agli Uffizzi. Non faceva mai la spiegazione del Catechismo agli adulti e nemmeno quella del Vangelo. Una volta parlò durante la messa e piacque. Anche il piccolo popolo di Montalbino ebbe dalla guerra i suoi morti e patì i disagi del periodo bellico come tutto il resto d’Italia. Ammirevole le donne che nei lavori campestri sostituirono gli uomini sotto le armi. Tuonava ancora il cannone e le mamme ancora piangevano quando il 3 maggio 1918, dopo lunghi giorni di letto, moriva il Vicario Luigi Veneziani a soli 37 anni.

I vecchi hanno raccontato anche il motivo di questa morte precoce. Il povero don Luigi soffriva di emorroidi e furono quelli a portarlo alla tomba con una lunga e sofferta malattia che spezzò il cuore ai parrocchiani che si succedettero al suo capezzale.

Fu una morte che in precedenza nessuno avrebbe immaginato e che forse scombinò i piani in Curia. Infatti non si riuscì a trovare subito un sostituto di don Veneziani e Montalbino rimase vacante per alcuni anni e in questo periodo, con i nervi ormai tesi dei montalbinesi, avvenne il Caso Pecchioli che allungò ancor più la vacanza della sede parrocchiale fino al 1937 con l’arrivo di don Angiolo Livi.

L’allestimento dell’altare della Cappella di Mensoli

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L’inventario redatto nel 1841 dal Cancelliere Comunitativo di San Casciano delle suppelletteli della parrocchia di San Giusto a Montalbino, in occasione della presa di possesso del nuovo curato don Carlo Paoli, è fonte di preziose annotazioni.

L’ultima sezione dell’elenco è dedicato alle suppellettili della cappella di Mensoli, e al primo posto di questi suppellettili figura questa:

79 – Una tavola con pittura esprimente San Carlo e San Francesco, e sopra, sfondo con l’immagine di Maria Santissima, e sopra corona con legno dorata, e quattro viticci parimenti dorati ai pié dello sfondo.

Questa scarna descrizione riesce a farci avere una visione di come era allestito l’altare della cappella. Sappiamo che sull’altare si trovava l’immagine della Madonna col Bambino di Andrea di Giusto, venerata dai fedeli, tenuta coperta da una tendina e scoperta appositamente per pregare la Madonna e chiedere una grazia. Ora sappiamo che all’epoca la pregevole tavola non era così ‘nuda e cruda’ come la vediamo oggi esposta al Museo di Arte Sacra di Montespertoli, ma, per dare una maggiore pomposità, di spirito tipicamente barocco, essa si trovava all’interno di un’altra tavola dipinta. Questa soluzione era tipica del periodo barocco e tardo-barocco, se ne trovano di esempi simili: quello più vicino lo si può trovare su un altare laterale della chiesa di Lucardo. I due santi che stavano ai piedi della venerata icona in segno di devozione non erano presi a caso: San Carlo (sicuramente il Borromeo) e San Francesco (molto probabilmente il santo di Assisi) furono due riformatori che diedero nuovo vigore alla Chiesa, uno nel periodo della Controriforma, l’altro ancor prima nel medioevo, e rappresentano le due anime del ministero sacerdotale: quello della Chiesa secolare (l’arcivescovo-cardinale San Carlo Borromeo) e quello della Chiesa regolare (il frate San Francesco d’Assisi). Quindi uno era vesitito dei paramenti vescovili, l’altro con l’umile saio. Generalmente il fondo di questo tipo di tavole era molto scuro apposta per far risaltare il quadro della Madonna da venerare. Sopra al quadro della Madonna c’era una corona di legno dorato e sotto lo sfondo dei viticci anch’essi dorati.

Si può supporre che questo quadro decorativo fu fatto realizzare nella prima metà del ‘700. Sappiamo che in quel periodo il curato di Montalbino Giovanni Candido Borghetti aveva fatto realizzare un nuovo altare “di stucco” appoggiato alla parete infondo con le “limosine dei fedeli”, come ci descrive nel suo cronacario il successore di Borghetti, don Pietro Chiti. Insieme all’altare nuovo, che quindi aveva forme baroccheggianti, il Borghetti può aver concluso l’allestimento scenografico con la realizzazione di questo quadro dei due santi che incornicia la tavola più antica di Andrea di Giusto.

Questo quadro-cornice è durato finchè è durata la sensibiltà del mondo barocco. Nella metà dell’800 queste trovate effimere già non si potevano più vedere però al tempo dell’inventario del 1841 doveva essere ancora utilizzato. E a proposito: il Cancelliere Comunitativo prima di fare l’elenco delle suppellettili della cappella di Mensoli scrive:

Gli arredi sacri e quanto appartiene a detta cappella interdetta, si trovano ora nella canonica della chiesa, e sono i seguenti …

Strano che tutte le suppelletteli della cappella fossero state trasportate alla canonica, e per canonica si intende quella della chiesa parrocchiale di San Giusto visto che la cappella di Mensoli non aveva una canonica. Strano perchè nell’elenco figurano anche diciassette panche e due confessionali “internati nel muro”. Fu trasportato tutto per l’occasione? Per far redigere l’inventario al cancelliere? Può darsi, anche se sarebbe stato più semplice che il cancelliere fosse andato lui alla cappella. Ma forse gli arredi della cappella si trovavano casualmente nella canonica per altro motivo. Comunque il cancelliere descrive la tavola dipinta con i due santi e lo sfondo con la Madonna come un tutt’uno, non come due pezzi separati. Infatti nell’elenco non viene menzionata la Madonna di Andrea di Giusto, ma con molta probabilità possiamo asserire che l’icona incorniciata si tratti proprio di quella visto che a memoria dei vecchi del posto è sempre stata tramandata che sull’altare della cappella c’era l’Andrea di Giusto. La memoria, che era stata tramandata dai vecchi che oggi non ci sono più, arriva agli anni 80 dell’800, l’inventario invece è del 1841, ma in quei 40 anni che dividono i due periodi non risulta in archivio che ci siano stati acquisti o trasferimenti di opere d’arte.

Però nei ricordi degli anziani la Mandonna di Andrea di Giusto appariva sull’altare della cappella, coperta dalla tendina, ma senza il quadro baroccheggiante di San Carlo e San Francesco. Segno che ormai certe trovate barocche non piacevano più e la tavola con i due santi era stato messa in cantina. Oggi questa tavola è scomparsa, ma per fortuna, grazie all’inventario del 1841, abbiamo potuto fare questa ricostruzione.

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Lotta di potere

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Un tempo i defunti venivano inumati sotto l’impiantito delle chiese, usanza che andò in crisi nel periodo dell’Illuminismo quando si iniziarono a determinare le prime norme igieniche e alla luce di esse a promuovere anche l’edificazione di cimiteri fuori dai paesi, ad una certa distanza dalle case. Il principe illuminato per antonomasia in Toscana fu il Granduca Pietro Leopoldo: infatti fu lui a fare un decreto che obbligava ogni comunità ad avere il suo campo santo. Ma non tutte le comunità furono ligie ai dettami del sovrano. Anche con l’occupazione francese si spinse verso l’applicazione di tale normativa, e poi anche nel periodo della Restaurazione con Ferdinando III e Leopoldo II. Tuttavia arrivati all’unità d’Italia ancora non tutte le comunità si erano adeguate e continuavano a deporre i loro morti sotto le chiese parrocchiali. Il regio governo non poteva più tollerare tale usanza ormai anacronistica, ma soprattutto fuori legge, e si impegnò a mettere in pari tutte quelle comunità che erano rimaste addietro nell’eseguire le norme.

E Montalbino rientrava tra quelle frazioni prive ancora di cimitero. Ma non solo la frazione di San Giusto, ma anche quella di San Lorenzo a Montalbino e quella di Trecento. Fu così che il comune di Montespertoli, sollecitato dal Prefetto, si affrettò tramite il suo ingegnare comunale, Giorgio Costa, a presentare un progetto per un cimitero che servisse per le tre frazioni.

Il progetto di Giorgio Costa porta la data del 4 settembre 1868. In esso il Costa descrive che il cimitero dovrà servire una comunità di 450 persone in totale: nello specifico 138 di San Jacopo a Trecento; 149 di San Giusto a Montalbino; 163 di San Lorenzo a Montalbino. Da questa cifra deduce che ci dovrebbero essere in circa 15 decessi all’anno e quindi la dimensione del cimitero, di forma quadrata, doveva essere di metri 16,3 per lato. Il perimetro sarebbe stato chiuso da un muro alto due metri e con l’accesso procurato da un cancelletto fra due colonne in mattoni che culminavano con delle piccole piramidi come decorazione. Segue poi una descrizione particolareggiata dei vari elementi e di come si dovranno svolgere i lavori.

La cosa però che ci interessa di più del progetto di Giorgio Costa e l’ubicazione che l’ingegnere propone. Essendo il cimitero a servizio di tre frazioni esso deve sorgere nel territorio della frazione che sta nel mezzo tra i tre, e cioè in quello di San Giusto a Montalbino. In particolare in una porzione della particella di proprietà che il Barone Sydney Sonnino gentilmente è disposto a concedere. Si tratta della particella 1061 della sezione K del catasto, una piaggia tufacea chiamata “Piaggia della Fornacina” (il microtonimo si trova in un altro documento, e comunque oggi il luogo viene chiamato semplicemente “il Poggio”) posta a tramonatana, ad adeguata distanza dalle case del borgo di Montalbino e, considerando l’ampiezza del territorio delle tre frazioni messe insieme, più o meno equidistante dai confini estremi di questo territorio che vanno dal podere Barberinuzzo di Trecento al podere la Selva di San Lorenzo a Montalbino.

A corredare lo scritto l’ingegnare Costa allega nell’ultimo foglio dei disegni per completare la descrizione del progetto: in alto la pianta quadrata, in basso il disegno del cancello tra le due colonne. A destra il disegno della particella 1061 della sezione K con in rosso il quadrato che costituisce il cimitero. Esso doveva sorgere lungo una strada carrabile che oggi non esiste più, da tempo declassata a viottolo di campo. Ma non finisce qui: sul disegno della particella catastale è stata sovrapposta la scritta “annullato”, mentre sulla sinistra è stato aggiunto uno schizzo di un’altra particella, la 346, sempre della sezione K. In questa particella viene indicato il quadrato del perimetro del cimitero. Sarebbe nel terreno della Chiesa, nel podere di Mensoli, vicino alla omonima cappella che si vede infatti nel disegno. Ed è infatti qui dove sorgerà il cimitero.

C’è stato quindi un cambiamento nel progetto iniziale, di per sé niente di eccezionale se non per il fatto che dall’archivio storico del comune di Montespertoli è custodito un altro documento a dir poco eclatante.

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In data 11 novembre 1869 la Prefettura di Firenze spedisce al Municipio di Montespertoli una richiesta di chiarimenti sulla vicenda del cimitero di Montalbino. Il Prefetto dice che egli aveva approvato in data 10 gennaio 1869 il progetto dell’ingegnere Costa sopra descritto, nella particella che sarebbe stato gentilmente ceduta dal Barone Sonnino, ma l’ufficio dell’Economato Generale dei Benefici Vacanti di Firenze ha informato il Prefetto stesso che nel frattempo il Municipio di Montespertoli ha realizzato il cimitero in una particella di proprietà della parrocchia di Montalbino (la suddetta particella 346), vicino al cappella di Mensoli e quindi anche alla casa del contadino del prete. Viene quindi rimproverato al Comune di Montespertoli di aver proceduto alla realizzazione di tale cimitero senza i permessi della Prefettura, dell’Economato dei Benifici Vacanti e senza la richiesta di esproprio del terreno di proprietà della Chiesa. Per non contare poi che questo cimitero è stato fatto sorgere a soli 50 metri di distanza dalla casa del contadino del prete, quindi si deduce dal tono di rimprovero che è una distanza aldisotto della normativa vigente.

Insomma, non si riesce a capire come mai il Comune di Montespertoli sia andato ad inguaiarsi con questa storia. Era già stato tutto stabilito: c’era il progetto del Costa, l’approvazione del Prefetto, la disponibilità del Barone Sonnino di cedere la terra. E si trattava inoltre di una buona posizione su un terreno asciutto. Invece dove il Comune ha voluto poi realizzare il cimitero, infischiandosene delle normative e dei permessi, è in un terreno scosceso, spesso umido.

La cosa è veramente sconcertante e quindi per raccapezzarci sulla motivazione di tale atto si è costretti a leggere questa storia in filigrana. A stimolare tale esercizio ci viene incontro il semplice registro dei morti della parrocchia di San Giusto a Montalbino. Il parroco don Francesco Bianucci annota la prima sepoltura di un parrocchiano di Montalbino nel cimitero, tale Mattia Pacciani di 83 anni, morto il 22 gennaio 1870. Don Bianucci alla fine annota: “[…] e fu dato al di lui corpo sepoltura nel Campo Santo nuovo di questa cura fatto a spese della Comune di Montespertoli.” Si può notare una sottile soddisfazione nel sottolineare che il cimitero è stato realizzato con i soldi del comune. Una annotazione, tra l’altro, del tutto inutile; e vedendo i registri tenuti da Don Bianucci si può notare il suo stile asciutto e quasi minimalista dove addirittura sovente tralasciava di registrare delle annotazioni assolutamente obbligatorie come il nome del padre del defunto. Invece in questo caso, stranamente, si dilunga in questa annotazione. L’impressione che ne dà è proprio quella di una sottile compiacenza. Pare che il prete e il sindaco abbiano agito di concerto per fargliela sotto il naso al Prefetto. E per quanto riguarda il prete esso sicuramente ha fatto da tramite con la Curia Arcivescovile di Firenze.

Ma perchè la Chiesa e il Municipio hanno agito in questo modo mettendo il Prefetto di fronte al fatto compiuto? Infatti poi il cimitero è rimasto lì, nonostante la serie di trasgressioni alla legge che hanno accompagnato la sua realizzazione. A questo punto è buona cosa analizzare il contesto storico. Il nuovo Regno d’Italia si caratterizzò fin dall’inizio da un esercizio del potere in modo totalmente centralizzato. Il governo, per cementare l’unità del nuovo paese e temendo la reazione dei vecchi poteri regionali e locali che potevano emanare una forza disgregatrice, non si fece scrupolo di usare la mano pesante e far sentire appunto il suo peso in ogni contrada del paese. Grande importanza ebbero i Prefetti collocati in ogni provincia: essi erano semplicemente l’emanazione del potere del governo centrale, e lo esercitarono con forza a scapito delle amministrazioni locali.

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Come possiamo vedere nella lettera del Prefetto di Firenze appare al suo fianco come alleato nella gestione del potere un ente che si chiama Economato dei Benfici Vacanti che oggi non esiste più, eliminato nel 1929 con i Patti Laternansi. Si trattava di un ente laico che esisteva da secoli ed era sempre servito ad amministrare quei benefici ecclesiastici che rimanevano momentaneamente vacanti: poteva capitare che alcune parrocchie rimanessero senza prete anche per alcuni anni. Ma con un nuovo regolamento del 16 gennaio 1861 l’Economato ebbe l’onere di vigilare anche sui beni ecclesiastici non vacanti, di fatto diminuendo in modo drastico l’autonomia della Chiesa nel gestire il proprio patrimonio. Quindi da una parte il Prefetto soffocava il potere amminisrativo dei sindaci e dall’altra l’Economato dei Benefici Vacanti soffocava il potere amministrativo della Chiesa. Per secoli il Municipio e la Chiesa erano stati gli unici che avevano esercitato il potere locale, gli unici a raccogliere le istanze della popolazione, spesso anche in rivalità tra loro. Ma adesso, di fronte al nemico comune, cioè il governo centrale massonico e arrogante, i due antichi rivali, Municipio e Chiesa, si ritrovarono alleati.

Ora, può darsi che gli abitanti di Montalbino siano rimasti contrariati nel sapere che era stato già approvato il progetto di realizzare il cimitero nella piaggia della Fornacina. In quella piaggia, vicino al luogo dove sarebbe sorto il cimitero, all’epoca c’erano delle pozze d’acqua dove le donne andavano a lavare i panni. Era un luogo di ritrovo, non solo dove si lavorava, ma anche di chiacchiere e compagnia. Sapere che adesso questo posto sarebbe stato infestato da un cimitero con tutte le paure e le dicerie che accompagnavano questi luoghi (vedi fuochi fatui scambiati per fantasmi) probabimente ci fu una viva protesta. La gente andò a lagnarsi da Don Bianucci e lui sarà andato a riferire in Municipio. A sua volta il Municipio avrà pregato il Prefetto di modificare il progetto iniziale per venire incontro alle esigenze della popolazione. Al Prefetto gli sarà apparso assurdo assecondare dicerie dovuto dall’ignoranza dei contadini e avrà ribadito che il progetto era buono così com’era e non si poteva più cambiare. Ma la gente continuò a mormorare e la Chiesa e il Municipio, che da tempo rodevano per aver perso la loro autorità, decisero di far per conto proprio infischiandosene del nuovo potere usurpatore e ribadendo così al popolo che erano loro gli unici enti che stavano dalla loro parte e che ascoltavano le loro richieste. E pazienza se il terreno che il Barone Sonnino era disposto a cedere era obbiettivamente migliore, asciutto, pianeggiante, comodo. Il Sonnino era pure lui un massone e un anticlericale, rappresentava la nuova aristocrazia che si indentificava con i tempi moderni e con l’Italia unita; da poco aveva acquistato tutte le terre di quella brava persona del Conte Galli, sempre stato devoto alla Chiesa e attaccato all’antica tradizione. Pazienza se il terreno che scelsero tra di loro era in pendenza, scomodo e umido, l’importante era sbugiardare di fronte al popolo il potere arrogante centralizzato. Facendo la cosa tra di loro evitarono di richiedere a questo punto inutili permessi come l’esproprio delle terre della Chiesa da parte del Comune visto che la Chiesa gli cedette sottobanco quel terreno. E poi, probabilmente, nel compilare la documentazione per tale richiesta avrebbero in automatico messo al corrente l’Economato dei Benefici Vacanti che in tal caso avrebbe bloccato il tutto alla nascita. Così invece il Prefetto e l’Economato furono messi di fronte al fatto compiuto. Fu un vero e proprio atto di insuburdinazione!

Forse seguì una reprimenda, qualcuno avrà pagato una multa salata, ma il cimitero ancora oggi è sempre lì e quando vi entriamo è bene conoscere questa storia immaginandoci le discussioni della gente, le paure, le liti negli uffici, gli incontri per architettare il piano segreto. E’ un caso tipico in cui la grande storia nazionale si è intrecciata con la piccola storia locale. A Montalbino il trauma dell’unità del paese che portò allo sconvolgimento degli antichi equilibri si è concretizzato con la realizzazione di questo piccolo cimitero.

Il podere di Mensoli

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Don Pietro Chiti, Rettore di San Giusto a Montalbino dal 1756 al 1802, ci ha lasciato tra le altre un resoconto in cosa consistesse l’appezzamento di terra del Podere di Mensoli, di proprità della parrocchia, o come si diceva all’epoca di proprietà del parroco pro tempore. Come si è visto in altri articoli queste terre erano state in origine di proprietà della famiglia fiorentina dei de’ Rossi, poi con il lascito della vedova dell’ultimo de’ Rossi un terzo di questa proprità fu donata alla pieve di San Pietro in Mercato. Questo terzo era diviso in tre parti e uno di essi, quello denominato “La Fonte agli Olmi” e che si riferisce all’appazzemante che gravita intorno alla cappella di Santa Maria a Mensoli, fu ceduto dalla pieve alla parrocchia di Montalbino in data ancora da scoprire. Ebbene, don Chiti fa la descrizione di questo podere che egli definisce “annesso di Mensoli”, e quindi con la parola “annesso” ci fa capire che è stato aggiunto, che in origine non era della parrocchia. Infatti il parroco pro tempore, prima di questa preziosa annessione, disponeva solo del Podere la Cesetta, nell’odierna via Colle Montalbino, più piccolo di quello di Mensoli.

Don Chiti descrive il podere dividendolo in tre parti:

Ricordo nel 1770

Beni e terre dell’annesso di Mensoli

1° Un pezzo di terra posta a solatio di staia undici circa, ulivetata vitata, con sodo e parte ceduo e querci con piccola pineta. Confina a 1. Via che va a San Lorenzo, 2. Podere del sig. Galli con fossa, 3. Borro, 4. Pineta, 5. Strada che va a Montalbino.

Questo pezzo di terra si riferisce a quella porzione che si sviluppa sul retro e sul fianco destro della cappella di Mensoli, con la piaggia che degrada verso il borro del Chiocciolino e confina con la “Pineta”. Cento anni dopo questa descrizione di don Chiti da questo pezzo di podere verrà sottratta una particella in cui verrà ricavato il cimitero comunale. Passiamo al secondo pezzo:

2° Un pezzo di terra detto il Poggio del Paretaio di staia sei circa, parte vitata, ulivata, boscata e poi spogliata. Confina a 1. Via che va a San Lorenzo, 2. Sig. Conte Galli con fossa, 3. Sig. Conte del Benino con bosco, 4. Via che va a Montalbino.

Questo è il pezzo più piccolo e si trova sulla sinistra della cappella di Mensoli. E’ a forma più o meno triangolare e coincide con la particella 342 della carta catastale leopoldina. Si tratta di uno spicchio del poggio sulla cui sommità si trova un paretaio di proprietà del Conte Galli; gran parte di questa collinetta era di proprietà del Conte Galli, tranne questo spicchio che appunto don Chiti definisce “il Poggio del Paretaio”. Questo lo posso asserire grazie ad una mappa catastale dei beni della parrocchia di Montalbino che era custodita nell’archivio parrocchiale e che raffigura l’annesso di Mensoli. E passiamo adesso all’ultima parte:

3° Un pezzo di terra di staia tredici in circa situata a tramontana e levante, nella maggior parte seminativo, vitata, pioppata, fruttata, olivetata, soda con poco ceduo. Confina a 1. Sig. Conte del Benino con bosco, 2. Via che va a Montalbino, 3. Sig. Conte Galli, 4. Via che va al Podere della Querce, 5. Sig. Galli con bosco, 6. Monache di San Jacopo di Firenze.

Questo pezzo posto a tramontana si trova davanti alla cappella di Mensoli ed è il luogo in cui si trova l’omonima fonte, ed è confinante con il bosco di proprietà dei Galli che anni prima vide svolgersi il fatto della legna tagliata che erroneamente l’abate Roberto Galli pensò che fosse sua.

1770

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Le terre che furono dei de’ Rossi

Questa che mi presto a fare è una ricostruzione che si basa su alcuni documenti archivistici. Tuttavia la ricostruzione non si può prenderla per certa, c’è infatti un certo grado di ipoteticità e il tutto potrebbe essere smentito con l’aggiunta di nuova documentazione che potrebbe saltare fuori. L’augurio quindi è che un giorno si possa fare maggior luce.

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La cappella di Mensoli

La ricostruzione parte da una famiglia importante che fu possidente a Montalbino: la famiglia fiorentina de’ Rossi. Per adesso non ci è dato sapere quando i de’ Rossi acquisirono queste terre, ma sappiamo quando smisero di esserne i proprietari. Lo sappiamo grazie a dei documenti che si trovano nell’archivio della Pieve di San Pietro in Mercato, vicino a Montespertoli. Essi ci parlano di due testamenti.

Il primo testamente è del 20 giugno 1478. In esso Guerriero di Tebaldo de’ Rossi lascia alla moglie Antonia di Alessandro Buondelmonti un podere nel popolo di San Giusto a Montalbino con l’obbligo di far celebrare per il defunto dieci messe l’anno, più un Uffizio di sei messe il giorno 8 settembre, Natività della Madonna, alla cappella di Santa Maria a Mensoli. Inizia quindi un pio legato per l’anima di Guerriero de’ Rossi che durerà secoli. Ai sacerdoti che partecipavano all’Uffizio dell’8 settembre veniva offerto un pranzo e un compenso totale di 49 lire d’argento (da 20 soldi l’una) da dividere tra di loro.

Il secondo testamento è del novembre 1498 che viene attuato con la morte della vedova de’ Rossi, Antonia Buondelmonti. Ella lascia in eredità il podere per un terzo al pieveno della Pieve di San Pietro in Mercato, e per i due terzi alle monache di Santa Felicita a Firenze (i de’ Rossi erano residenti del quartiere di Santa Felicita, nell’oltrarno).

Questa suddivisione almeno all’inizio non comportò ad una effettiva spartizione dell’antico podere dei de’ Rossi, ma ad una comproprietà che comportava ad una spartizione (un terzo l’uno e due terzi l’altro) del ricavato dell’attività agricola. Lo si vede da un documento che è saltato fuori nell’archivio storico dell’arcidiocesi fiorentina. Dal 1595 il prete di Montalbino, Vincenzo Ciatti, fa un elenco dei poderi che si trovano nel suo popolo per farne il calcolo delle decime che doveva riscuotere. Da questo elenco si vede che il “Podere Montalbino” è in comproprietà di un terzo della pieve di San Pietro in Mercato e due terzi delle Monache di Santa Felicita a Firenze. La famiglia contadina mezzadra doveva quindi rispondere a due padroni. Questa coabitazione ad un certo punto ebbe termine e da documenti successivi si ha l’impressione che il vecchio podere sia stata effettivamente diviso in due, secondo le percentuali volute dalla vedova de’ Rossi. All’archivio della pieve di San Pietro in Mercato abbiamo il resoconto in cosa consistesse il terzo che era spettato al pievano e si trattava di: quattro stanze di una casa da contadino, un appezzamento di terra in luogo detto il “Poggio” capace di 12 staie di seme, un campo con una piaggia di 4 staie, e un campo detto “le Fonti agli Olmi” capace di 12 staie.

I toponimi ci aiutano ad individuare i luoghi. La “Fonte agli olmi” è quella che oggi è conosciuta semplicemente come Fonte di Mensoli. La fonte si trova in un boschetto e vicino c’è giusto un campo che può essere quello che rendeva le 12 staie. L’altro campo di pari valore produttivo denominato il “Poggio” farebbe pensare a quello che verrà chiamato “Podere il Poggio”, vicino alla cappella di Mensoli. Questo appezzamente verrà acquistato nel ‘600 dal Conte Galli e costituirà un podere con casa colonica che forse fu eretta proprio in questo periodo. Il “Poggio” sarà uno dei primi investimenti dei Conti Galli nella podesteria montespertolese, uno dei primi di una lunga serie che farà dei Galli i maggiori possidenti in questo territorio e che farà capo al castello vicino alla piazza di Montespertoli, oggi conosciuto come Castello di Sonnino.

Ma purtroppo questa è solo una mia ricostruzione. Va detto infatti che il microtoponimo “Poggio” era ed è molto comune e che nei secoli passati poteva indicare un altro luogo: ogni collinetta era un potenziale “Poggio”. Però quello che mi sono permesso di ipotizzare è vicino alla cappella di Mensoli dove Guerriero de’ Rossi aveva richiesto di eseguire in perpetuo gli Uffizi in sua memoria, ed è attiguo all’altro terreno, quello della “Fonte agli Olmi”. Inoltre l’unico altro “Poggio” che troviamo nel documento delle decime di don Vincenzo Ciatti indica un podere dall’altra parte della parrocchia di Montalbino e di proprietà dei Del Nero: francamente meno probabile che fosse stato questo un terreno originario dei de’ Rossi invece che del “Poggio” vicino alla cappella di Mensoli. Infine, solo in anni recenti, è comparso un altro toponimo “il Poggio”, una collinetta tra Montalbino e Mensoli: ma fino alla prima metà dell’800, come testimoniano le vecchie carte catastali, questa collinetta era denominata “Fornaciaio” per la presenza di fornaci per la cottura dei mattoni. Quindi non era questo il “Poggio” che era passato di proprietà della pieve.

Rimane da individuare il campo più piccolo, quello che dava un rendimento di 4 staie, e che non ha una denominazione. Inoltre ci sono anche le quattro stanze di una casa (attenzione, non una casa di quattro stanze). In aiuto a questa ricostruzione ci vengono incontro altri documenti dell’archivio della Pieve di San Pietro in Mercato. Vediamo che a partire dall’inizio del ‘600 la pieve preferisce dare in affitto il podere che ha a Montalbino. C’è quindi una successione di contratti di affitto che ebbe questo andamento: nel 1607 per 49 lire d’argento annue le terre a Montalbino furono date in affitto al Buonaccorsi; nel 1647 allo Strozzi; nel 1651 alle suore di Santa Felicita (che possedevano già i due terzi del lascito della vedova de’ Rossi); nel 1705 alla famiglia Biffi-Castellani e successivamente al Conte Galli. Quindi nel 1801 ai Galli-Tassi (la famiglia Galli si era estinta nel ramo maschile e la erede aveva unito il suo cognome con quella del marito Tassi). Infine nel 1870 al Barone Sonnino. Sappiamo che i Sonnino acquisirono tutte le proprietà dei Galli-Tassi e a regola presero anche i contratti a livello per continuare con la medesima produzione.

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Campione di strade del 1819 custodito nell’archivio storico preunitario del Comune di Montespertoli.

Ebbene, consultando infine il campione delle strade conservato all’archivio di Montespertoli del 1819 vediamo che il Conte Galli-Tassi possedeva quasi tutte le terre intorno al villaggio di Montalbino, ma quelle stesse terre sappiamo invece che erano della Chiesa. Il campione delle strade in realtà indica non il proprietario, ma colui che ha l’onere di mantenere in ordine i ciglioni che si affacciano sulla strada comunale; e poteva essere il proprietario di quel terreno oppure il livellatario o l’affittuario. Quindi quel terreno della Chiesa era dato a livello al Conte Galli-Tassi e si tratta quindi di quel terreno che era da secoli dato in affitto. Quindi quel campo adiacente a Montalbino, dove ultimamente c’era l’uliveta, era l’appezzamento (quello più piccolo, che rendeva quattro staie) di proprietà della pieve di San Pietro in Mercato e ancor prima era di proprietà di Guerriero de’ Rossi. E per quanto riguarda le quattro stanze da lavoratore, quindi ad uso della famiglia colonica, il sospetto cade sulla casa che nel campione di strade risulta di proprietà del Conte Galli-Tassi (ma forse a livello), che in realtà è una mezza casa (infatti sono quattro stanze di una casa, non una casa di quattro stanze).

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1) Abitato di Montalbino; 2) Cappella di Mensoli; 3) Fonte di Mensoli, una volta chiamato Fonte agli Olmi. I punti 2 e 3 sono all’interno dell’appezzamento di terra che prendeva proprio il nome di “Fonte agli Olmi”; 4) Appezzamento denominato il “Poggio”. Il numero è nella prossimità della casa colonica che dall’inizio del ‘900 ha preso il nome di “Palazzina”. Nel ‘600 questo appezzamento fu acquistato dal Conte Galli divenendo un podere autonomo e probabilmente fu costruita in quel periodo anche la casa coloninca che fu inserita nel popolo di San Lorenzo a Montalbino. Dal 1870 è passato di proprietà del Barone Sonnino; 5) Appezzamento di terra che era della Chiesa, di preciso della pieve di San Pietro in Mercato che veniva dato in affitto o a livello a varie famiglie genitilizie fiorentine, tra gli ultimi i Galli-Tassi; 6) Terreni che erano di proprietà delle Monache di Santa Felicita di Firenze e che quindi erano i due terzi dell’originario podere del De’ Rossi; 7) La collinetta che si chiamava il “Fornaciaio” per la presenza di fornaci. Ultimamente è stato rinominato “il Poggio”. Era di proprietà del Conte Galli-Tassi e poi del Barone Sonnino.

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Ricostruzione di come poteva apparire Montalbino nel XVI secolo. 1) Chiesa di San Giusto a Montalbino; 2) Resti delle mura che univa le case che formavano il “castello di Montalbino”; 3) La casa più esterna che si affacciava sui terreni della pieve e che probabilmente erano lì le “quattro stanze da lavoratore”; 4) La particella di proprietà della pieve di San Pietro in Mercato che un tempo era di proprietà della famiglia de’ Rossi; 5) Strada che va al Colle Montalbino; 6) strada che va a Mensoli e Montespertoli; 7) strada che va a Trecento e Lucardo; 8) Collinetta che era chiamato il “Fornaciaio”, ultimamente rinominato “il Poggio”.

La Madonna di Mensoli

Anni fa esisteva la cappella di Santa Maria a Mensole (o Mensoli) nel territorio parrocchiale di San Giusto a Montalbino. Nel medioevo Mensole era un popolo autonomo e la chiesa di Santa Maria era una delle ventisette suffraganee della Pieve di San Pietro in Mercato.

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Verso la fine del ‘400 perse la sua autonomia e il popolo fu accorpato a quello di San Giusto a Montalbino. Così si racconta, ma probabilmente non si trattò di un semplice accorpamento ma di una spartizione: la chiesetta e il terreno intorno, ivi compresa la fonte, andò a San Giusto a Montalbino; il poggio sovrastante la chiesetta dove probabilmente c’era la casa del “podere Mensole”, che poi mutò nome in “podere il Poggio” e infine in “la Palazzina”, andò al popolo di San Lorenzo a Montalbino; e la zona vicino alla Pesciola dove sorgerà, o già sorgeva, il “podere la Quercia” passò al popolo di San Martino a Manzano. Ammetto che si tratta solo di una mia ricostruzione arbitraria, ma francamente mi sembra molto probabile perchè per ricostruire l’antico territorio di Mensoli non ho fatto altro che mettere insieme le areee più prossime alla chiesetta.

Ma la storia che più mi interessa è quella successiva all’accorpamento. La ex-chiesa parrocchiale, ormai degradata a cappella, conobbe un periodo di fama grazie al quadro della Madonna col Bambino che costudiva sull’altare. Questa icona era considerata portatrice di grazie ed era quindi venerata non solo dagli abitanti di Montalbino, ma anche da quelli dei popoli vicini.

Ma a parte il valore spirituale la Madonna di Mensoli possiede anche un certo valore artistico. Infatti il pittore è Andrea di Giusto, attivo all’inizio del ‘400. Anche se dopo la sua morte Andrea di Giusto è caduto in un perpetuo oblio, quando era in vita fu un artista stimato: lo dimostrano i suoi affreschi nel duomo di Prato. Il dipinto di Mensoli non è scevra da una certa eleganza. E’ raffigurata la Madonna col Bambino benedicente che sta in piedi appoggiato sulle ginocchia della madre. Una certa rigidità e soprattutto la preziosità dei particolari collocano questa opera sicuramente nell’ambito tardo gotico, ma la spazialità intorno alla figura della Vergine, in cui si vede sul retro rappresentato un catino absidale, fa capire che il pittore era a conoscenza delle novità stilistiche che maturavano in ambienti umanistici. Infatti Andrea di Giusto compare come collaboratore di Masaccio in alcune opere del celebre maestro. Quindi Andrea di Giusto può essere collocato in quella cerchia di pittori spesso misconusciuti, ma importanti per la storia dell’arte, che hanno avuto la funzione di anelli di congiunzione tra stili diversi. Il gotico era agli inizi del ‘400 lo stile più in voga, e la portata rivoluzionaria di Masaccio poteva non essere ancora recepita dai fedeli; ed ecco che pittori come Andrea di Giusto, che immettevano nella loro arte piccole dosi delle innovazioni masaccesche senza tradire lo spirito gotico, ebbero il prezioso compito di traghettare in modo indolore il gusto della gente all’accettazione dello stile rinascimentale. Maestro di questa categoria di artisti traghettatori fu indubbiamente il Beato Angelico, e Andrea di Giusto ebbe modo di frequentare anche costui e la sua arte può essere considerata più influenzata proprio da Beato Angelico che da Masaccio.

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Insomma, è indubbio che Andrea di Giusto sia stato un artista di grande rilievo al suo tempo, c’è quindi da domandarsi come abbia fatto una sua opera a ritrovarsi nella cappella di Santa Maria a Mensoli, sperduto tra le campagne montespertolesi. Nel periodo in cui l’artista dipinse questa tavola Mensoli era ancora un popolo autonomo. Questo piccolo popolo di campagna probabilmente non aveva risorse per una simile committenza, quindi dobbiamo cercare una famiglia che avesse il patronato sulla chiesa e che con munificenza avesse deciso di farle un dono. Anche se non ci sono dati espliciti in materia si può dedurre che la chiesa godesse del patronato della famiglia fiorentina dei de’ Rossi, agiati mercanti che si sarebbero una generazione dopo imparentati con i Medici. Qui possedevano diverse terre e alla fine del secolo questi possedimenti verranno ceduti con un lascito alla pieve e ad un convento di suore. Ma francamente Andrea di Giusto mi pare un nome fin troppo spropositato per una chiesetta di campagna di un piccolo popolo, anche se ci fosse dietro la generosità dei de’ Rossi. Casomai un nome di un artista che in quegli anni operava nelle campagne era per esempio Cenni di Francesco di ser Cenni, ma Andrea di Giusto ha lavorato massimamente nelle città. Comunque abbiamo un indizio importante che ci fa presupporre che l’opera sia arrivata a Mensoli in un secondo tempo, come acquisto di seconda mano quando ormai la stella di Andrea di Giusto era definitivamente tramontata e le sue opere svalutate. La tavola, infatti, risulta tagliata. E’ evidente che la cuspide è stata segata e per la legge delle proporzioni anche la parte inferiore è stata eliminata così come un po’ dai lati: apposta per ottenere un quadretto di dimensioni modeste da collocare su un piccolo altare come quello della chiesa di Mensoli. La tavola originaria era quindi più grande e cuspidata e molto probabilmente faceva parte di un trittico, quindi con altre due tavole cuspidate posti ai lati con raffiguarati dei santi. E’ probabile che l’opera di Andrea di Giusto sia stata smembrata per ottenere più quadri nel periodo della controriforma, quando fu promosso il culto dei santi e il culto della Vergine che fece aumentare gli altari nelle chiese e il proliferare di piccole cappelle votive. Tra la fine del ‘500 e nel corso del ‘600 ci fu una richiesta di piccole opere da collocare sugli altari e per le campagne spesso si riciclavano opere ormai considerate vecchie e che non incontravano più i gusti dei fedeli cittadini. Andrea di Giusto, all’epoca della controriforma, era considerato superato, oltre ad avere le stigmate di non essere ne carne e né pesce essendo un artista di passaggio e quindi non era né un maestro del rinascimento e nemmeno un onorato primitivo dell’arte medioevale.

Per adesso non sono saltati fuori documenti che ci testimoniano l’acquisto di questa tavola e quindi non possiamo sapere l’anno (che può essere la fine del ‘500, ma anche tutto l’arco del ‘600) e nemmeno chi lo abbia acquistato (probabile che il prete di Montalbino abbia fatto una colletta presso tutti i possidenti terrieri della parrocchia, infatti la chiesa di San Giusto a Montalbino era a jus-patronto popolare).

E ritorniamo a parlare della devozione per questa immagine. La fama della Madonna di Mensoli era riconosciuta in tutto il comune. I contadini venivano a pregare questa immagine per chiedere delle grazie come la buona riuscita del raccolto, per far piovere, per far venire il sole, perchè la vacca soprapparto potesse partorire il suo vitellino, e cose di questo genere. E pare che le grazie arrivassero altrimenti non si spiegherebbe il successo che aveva ottenuto. L’immagine era tenuta celata da una tendina e il contadino che veniva a chiedere la grazia otteneva dal prete (probabilmente previa offerta) la possibilità di vederla. La tendina veniva tirata via (si diceva infatti “si va a scoprire la Madonna”, che significava “si va a chiederle una grazia”), si accendevano le candele, si suonava la campana per richiamare altri fedeli che si mettevano in ginocchio e il parroco recitava una preghiera che era pressappoco così:

Vergina Maria, non si è mai inteso dire al mondo che alcuno, invocando il Vostro aiuto e ricorrendo al Vostro patrocinio, sia rimasto da Voi abbandonato.

Animato anch’io da una tale confidenza a Voi ricorro, Madre, Vergine delle vergini, con le lacrime agli occhi, reo qual sono mi prosto ai Vostri piedi a domandare pietà.

Non Vogliate, Madre del Verbo, disprezzare la mia supplica, ma benigna ascoltatela, esuditela e così sia.

Attalmente non so se questa preghiera era stata scritta specifica per questa Madonna di Mensoli o se era una preghiera comune detta anche in altri luoghi.

La cappella dedicata a Santa Maria poteva essere denominata anche Santa Maria Novella perchè la dedica era alla natività della Vergine e infatti la festa era l’8 settembre, giorno della nascita di Maria. Ma non era solo una festa religiosa quella dell’8 settembre a Mensoli, si faceva anche una gran festa di popolo con la gente che accorreva da ogni dove. Venivano allestite bancherelle lungo la via, il pallaio e altri luoghi ricreativi: probabilmente si ballava anche.

Ma questo spaccato di cultura contadina iniziò a sbriciolarsi già durante la prima metà del ‘900 quando le infiltrazioni di umido fecero giustamente prendere la decisione di salvaguardare la pala trasferendola nella parrocchiale di San Giusto. Poi il passaggio del fronte recò danni alla cappella di Mensoli, il campanile fu abbattuto da un colpo di cannone e si sbriciolò la campana di bronzo che era datata 1444 (quindi campò 500 anni precisi venendo distrutta nel 1944). Nel dopoguerra i soldi stanziati dalla curia per il restauro della cappella furono dirottati dal parroco verso il progetto di una nuova cappella edificata a Montalbino dedicata sempre alla Madonna che sostituì la vecchia e secolare cappellina di Mensoli. Essa fu integrata con l’adiacente casa del contadino divenendo un magazzino (la fine che ha accumunato molte altre chiesette), e una volta ridotta a magazzino fu anche divisa in due stanze con un sopramattone. Oggi la casa del contadino è stata restaurata e sono stati ricavati due appartamenti. Della cappellina di Mensoli si è persa traccia.

La pala di Andrea di Giusto ha trovato posto per diversi anni su un altare laterale della chiesa di San Giusto a Montalbino fino a metà degli anni ’80 quando per sicurezza è stata ricoverata a Firenze in attesa del completamento del museo di arte sacra presso la pieve di San Pietro in Mercato dove si trova tutt’ora dalla metà degli anni ’90.

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